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MIGRANTI nelle parole dell’autrice Issa Watanabe

Quante storie si nascondono in un silent book di poche pagine, quante idee, esperienze, riflessioni… Parlando con Issa Watanabe durante la #TertuliaILLUSTRATI dell’11 marzo 2021, sono rimasta così affascinata dal suo racconto, e soprattutto dalla sua esperienza nel presentarlo ai bambini, che ho deciso di chiamarla e approfondire alcuni aspetti e poi riprendere tutto quanto insieme e trascriverlo per voi, con la speranza che il silenzio delle sue immagini si propaghi regalandoci la coscienza e la voglia di contribuire alla sua diffusione.

Mia madre era illustratrice e sono cresciuta guardandola mentre disegnava. Anche lei iniziò quasi per caso: lavorando a progetti bilingue con comunità della selva e della sierra peruviana, si rese conto che non era sufficiente tradurre le parole, ma era necessario tradurre anche le immagini, perché un bambino della selva non ha familiarità con le immagini della città o addirittura della capitale. Poi, accorgendosi che i testi scolastici erano noiosi e avevano illustrazioni orribili, decise di illustrarli. I suoi disegni erano semplici ma pieni di grazia e dolcezza. Naturalmente tutti i miei riferimenti nascono dal guardarla al tavolo da disegno. Anch’io disegnavo sempre e a scuola ero considerata quella che disegnava bene, così quando dovetti decidere a quale università iscrivermi era quasi scontato che avrei deciso di frequentare Arte. Avevo però anche mio padre, che era un poeta riconosciuto e tuttora di riferimento in Perù, e alla fine scelsi letteratura per poi passare ad arte, ma non durai molto e me ne andai a Maiorca, in Spagna, dove mia nonna aveva una casetta, e dove partecipai a svariati corsi di scultura, incisione, illustrazione…

Ho vissuto a Maiorca proprio nel periodo in cui cominciava la crisi dei cayucos. Arrivavano carrette del mare piene di persone, molte delle quali semplicemente non arrivavano. Studiavo, e condividevo l’appartamento con altre due persone, tra cui il mio fidanzato, un matto meraviglioso, che un giorno rientrò con Abdulai, un ragazzo del Mali appena sbarcato incontrato alla fermata dell’autobus. Abdulai era ancora spaventato e non sapeva dove andare, così lo invitammo a restare. Con lui e grazie a lui, abbiamo potuto conoscere molto da vicino l’esperienza della migrazione – il viaggio intrapreso lasciando la famiglia e gli amici, ciò che lo aveva spinto a partire – e con lui abbiamo vissuto le sue difficoltà di adattamento in un Paese che non lo voleva. È stato faticoso, non si possono immaginare i livelli di abuso, le false promesse, la schiavitù mascherata a cui si è dovuto adeguare. Era una bellissima persona, ma si portava dietro lingua, usanze e anche religione diverse e che non venivano accettate dalla cultura locale. Non c’era niente di male in lui, ma per gli ‘occidentali’, strano a dirsi, era un problema il fatto che non fumasse e non bevesse in compagnia, o che si ritirasse in determinati momenti del giorno a pregare. Abbiamo condiviso con lui la nostra lingua e la nostra cultura, abbiamo conosciuto i balli, la musica e il cibo del Mali… ma anche il peso della sua grande famiglia, che aveva investito quel poco e niente che aveva per mandare il più giovane, il più forte, quello con più probabilità di riuscire, a trovare un lavoro che gli consentisse di mandare loro il denaro per vivere. Le telefonate in cui il fratello si lamentava di non avere di che sfamarsi a causa della siccità erano drammatiche. E comunque ogni giorno leggevamo e ascoltavamo le notizie dei naufraghi, dei morti affogati in mare, del traffico illegale, degli abusi… ci sentivamo come bambini che per la prima volta vedono la realtà delle cose e ci chiedevamo come fosse possibile un tale livello di crudeltà e di disumanità.

Dopo aver vissuto a Maiorca per quindici anni, sono tornata in Perù ed è stato allora che ho visto la serie fotografica intitolata Where the Children Sleep (Dove dormono i bambini) di Magnus Wennman, una serie che mostra bambini profughi siriani che dormono in un campo improvvisato, in mezzo a un bosco. Mi hanno colpito soprattutto i loro sguardi. Siamo abituati a vedere immagini con centinaia di persone, vere e proprie masse di gente, immagini usate probabilmente per fini politici e come monito contro l’invasione alla quale soccomberemo, immagini con le quali viene annullata l’individualità dei protagonisti. Nelle fotografie di Wennman, invece, si possono vedere gli sguardi pieni di tristezza e paura dei bambini profughi.Era anche un momento particolare per me, avevo bisogno di trovare rifugio, un riparo, e come ho sempre fatto nella mia vita, mi sono messa a disegnare. Non ho pensato né immaginato che sarebbe diventato un libro, ho solo disegnato, un disegno dopo l’altro,commuovendomi, perché nel disegnare creiamo qualcosa che in quel momento diventa reale, e ho provato compassione per i miei personaggi. Erano tristi e stanchi… e così, per dare loro sollievo, nel disegno successivo li ho fatti riposare.

La migrazione è un fenomeno mondiale, che attraversa tutta la storia dell’umanità di tutte le etnie e culture, per questo i miei personaggi non potevano appartenere a una sola specie. Sono tutti animali di specie diverse, che provengono da luoghi diversi e stanno tutti insieme prendendosi cura gli uni degli altri. La collaborazione nasce anche dalla situazione, dalla necessità, e seppure nella vita vera, come faccio sempre notare ai bambini a cui presento il libro, un coccodrillo si mangerebbe la rana o il topolino, nel mio libro succede proprio il contrario. Qui gli uni si prendono cura degli altri, perché altrimenti… Questo è un modo di dare spazio alla speranza, soprattutto in una storia così drammatica.

Ho continuato a disegnare fino a rendermi conto che stavo costruendo una storia di viaggio, ma è un tema talmente delicato, complesso e serio, che trattarlo da una posizione privilegiata come la mia mi ha fatto sorgere molti dubbi, ho cercato quindi di informarmi il più possibile, parlando con chi lo aveva vissuto, facendo ricerche, scoprendo cose molto dolorose, e più andavo avanti nella ricerca più diventava terribile.
Ho voluto raccontare la storia in maniera simbolica, mantenendola molto semplice e lineare, e ho cercato di far sì che ciascun disegno trasmettesse le emozioni, i sentimenti.
La storia inizia con la morte a cavallo di un ibis.
Trova una valigia, quindi incontra un gruppo di animali. C’è una ranocchia nel gruppo che si volta indietro e la vede, la scopre, fino a che tutti gli altri si girano e la vedono. La valigia è una sorta di domanda, come se chiedesse il permesso di unirsi al viaggio. Il gruppo acconsente, perché la morte è sempre presente, il pericolo li accompagna per tutto il cammino.

A me piace molto presentare il libro ai bambini perché mentre guardiamo i disegni, sorgono molte domande a cui provano a dare risposta. È molto interessante ascoltarli, anche in base all’età o al luogo da cui provengono. Se sono molto piccoli ad esempio, possono dire: “Gli si è allagato il bagno”. Dopodiché chiedono: “Ma vivono tutti insieme? Si è allagato il bagno della loro casa?”. Poi però si dicono: “No, sono in troppi per vivere in una casa sola”. “Allora forse si è allagato il bagno di tutti, oppure gli si è allagato il Paese.” “Ah sì, forse il Paese.” “Ecco, si è allagato il Paese e sono rimasti senza casa o hanno perso le loro cose, quindi sono dovuti andar via, no?” I bambini fanno un passo dopo l’altro, e le cose che dicono, il livello di riflessione è straordinario. Sottovalutiamo sempre le loro capacità.
In genere si ha paura di parlare di cose tristi come la morte ai bambini, anche se sono cose che succedono intorno a loro, perché ascoltano le notizie, vedono le immagini, magari hanno dei compagni di classe che vengono da altri Paesi… ed è importante avere gli strumenti per capire ed elaborare queste informazioni, come i libri e le storie, perché sono spazi sicuri tramite i quali avvicinarsi a certe tematiche che spesso li circondano ma che non sono assimilabili, perché complesse, o perché fanno sorgere dubbi, domande. La cosa interessante è che spesso, ai bambini, il personaggio che piace di più è proprio la morte, non ne hanno paura.
Il valore di questo libro, e del presentarlo nelle scuole e nelle biblioteche, credo stia nella possibilità di mettere sul tavolo l’argomento e far nascere un dibattito. Guardando le immagini e parlando della migrazione è inevitabile che sorgano delle domande.
Una volta ero in una scuola pubblica, mi ricordo che avevano riunito in una classe cinquanta o settanta bambini e alla fine abbiamo chiesto loro: “Chi di voi è migrante o ha un familiare stretto migrante?”. E di colpo hanno tutti alzato la mano, anche io e gli insegnanti. La cosa bella è che, alzando la mano, hanno cominciato a riconoscersi tra loro e a sorprendersi.

Quando faccio vedere la scena del barcone e poi del naufragio, i bambini sono molto coinvolti, si immedesimano subito nei personaggi. Spesso trascuriamo il fatto che sono tantissimi coloro che in prima o seconda persona hanno vissuto l’esperienza della migrazione, e non è giusto edulcorare le cose, non puoi dire loro: “Vedrai che troverai una casa e sarai felice”, perché non è così. Hanno perso familiari, hanno abbandonato tutto e si ritrovano a vivere in una società che non li apprezza, ma tornare indietro significa la fine.
Quando poi giro la pagina e dico loro: “Qui qualcuno ha raggiunto la riva, ma è successo qualcosa di molto triste”, perché uno dei personaggi non è sopravvissuto al viaggio, i bambini dicono: “Poverino, mi dispiace”. Poi dicono: “A me la settimana scorsa è morto il cane ed ero tristissima”. “A me è morto il nonno un mese fa.”

Non sono estranei alla morte, e se lo sono, prima o poi la conosceranno. Un libro che parla della morte offre un modo di elaborarla. Se non la vedono e non ne parlano diventa tutto più difficile. Credo sia questo il potere della finzione: consente di affrontare certi temi, come dicevo prima, all’interno di uno spazio sicuro. I bambini sanno che quel che vedono non sta accadendo nella realtà, non sta morendo nessuno, è tutto limitato allo spazio del libro, che è finzione; e possono interpretare, analizzare e, se si sentono turbati, persino chiudere il libro o saltare una pagina. È uno spazio sicuro. È lo spazio di cui parlava Donald Winnicott: il gioco come spazio di scambio tra il mondo interiore e quello esteriore. Quando si gioca, gli elementi esteriori vengono interiorizzati. Si tratta della simbolizzazione. Tu sai che puoi prendere una macchinina e farla andare a sbattere senza causare un incidente nella vita reale. In questo modo si possono canalizzare le cose attraverso il gioco, perché è uno spazio sicuro.
Il libro è un po’ la stessa cosa, offre una pausa, uno spazio di riflessione. La morte è dolorosa ma anche molto naturale, e troppa protezione non fa bene, credo, non aiuta a crescere. È necessario affrontare i temi della vita, e il tema principale è la morte, è inevitabile.
È difficile essere ottimisti in questo mondo, credo però che ci sia bisogno di costruire, di non perdere la speranza.
La speranza può essere rappresentata da qualcosa che fiorisce e quando con i bambini finiamo di scorrere le immagini e arriviamo a quest’ultima pagina, faccio sempre notare che questa speranza possono essere loro, che possono rappresentare una speranza per queste persone che arrivano dall’altra parte del mare, perché molto dipenderà da come le accoglieremo, perché è importante anche l’atteggiamento che avremo nei confronti di queste persone.

Non ho però voluto proseguire con la speranza anche nel risguardo, qualcosa è fiorito è vero, c’è la speranza, il colore, rinasce la vita, ma non sappiamo quanto durerà, non sappiamo cosa ci aspetta. Presentare la storia con l’idea che arrivino al confine, lo attraversino, vengano accolti e siano felici non sarebbe stato veritiero. A volte succede, ma non è la normalità. Ci sono pochi casi fortunati, ma la maggior parte di loro avrà una vita molto difficile per molti anni.
È stata fondamentale per me, la lettura della biografia di Ágota Kristóf, L’analfabeta, che parla di una donna che vive l’esperienza della migrazione e nel libro dice: “Noi siamo partiti, ci siamo persi, poi siamo arrivati in questo luogo che in teoria dovrebbe essere una nuova casa, ma in realtà è dove per noi comincia il deserto”. Il deserto non finisce con il viaggio, una volta arrivati inizia un deserto culturale e sociale in cui persino la lingua è diversa. Inizia lo sradicamento. La solitudine che sentono gli immigrati è spaventosa, Ágota Kristóf racconta che era tanto terribile quanto il silenzio durante il viaggio.
Migranti è senza testo perché il problema della migrazione riguarda il mondo intero, e come tale deve poter comunicare con tutti i suoi abitanti, in tutte le loro lingue. Ho voluto inserire solo una frase di Theo Angelopoulos: “Quanti confini dovremo ancora passare per arrivare a casa nostra?”, tratta dal suo film Il passo sospeso della cicogna. Mi ha talmente colpita che ho voluto dedicare un’immagine a una scena in cui Marcello Mastroianni cammina di spalle, c’è una guardiola, poi un ponte e una linea, questo è un confine come tutti i confini del mondo, lui si avvicina e quando è sul punto di attraversare la linea che divide il suo Paese dall’altro, solleva un piede per fare un passo e rimane sospeso, simile a una cicogna.

MIGRANTI di Issa Watanabe #logosedizioni
SCHEDA LIBRO, BOOKTRAILER
Cartonato, 23 x 23 cm, 40 pagine, 14,50 €
ISBN: 9788857610702

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