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ROCCO LOMBARDI

Sono un animale tra gli animali.
Un albero tra gli alberi. Un fiume nel fiume.

Ci aspettava sulla strada. Ci ha detto di parcheggiare, e a piedi abbiamo sceso centotrenta gradini, andando sotto al grande ponte, un altissimo ponte di cemento che visto da sotto sembra molto più grande di quando lo si attraversa velocemente con la macchina. Scendere la scala è stato come imboccare un passaggio segreto, aprire la porta di una piccola oasi di serenità. Presa dall’andare avanti, dall’arrivare, non ho mai pensato che sotto quel grande ponte in realtà ci fosse altro. Così, finite le scale, scomparso l’asfalto, scomparse le macchine, siamo entrati in un mondo in cui regnavano altissimi pioppi scossi dal vento, con centinaia di migliaia di foglie che frusciavano come cicale sotto al sole… un piccolo sentiero ci ha portati a una casetta immersa nel verde affacciata sul fiume Reno, la casa in cui vive Rocco, insieme a una giovane famiglia, e alle galline.

Quella che doveva essere una normale intervista a un illustratore, che mi avrebbe raccontato la sua passione per il disegno e il suo sogno artistico, è diventata una piacevole passeggiata in riva a un fiume e la condivisione di una visione piena della vita. Con tutta la semplicità, e la dolcezza, di un approccio sano e sereno all’esistenza, che sembra dare una risposta concreta alle mie crisi esistenziali, alle mille domande e inquietudini che mi assillano ogni giorno e che sembro placare solo quando corro ascoltando gli uccellini nelle prime luci dell’alba.

“Per me il disegno, il mio disegno, è un mezzo per esprimere me stesso, per fare quello che voglio, ma non necessariamente un lavoro. Disegno in tranquillità, senza pensare che devo per forza guadagnare. Esco a camminare e mi piace sedermi a ritrarre il paesaggio, ma quando torno non mi metto direttamente a rielaborare gli schizzi fatti fuori. Ho una serie di progetti in testa, su certe montagne, su certi animali… ma disegnare non mi realizza. Amo stare fuori, voglio avere il tempo per stare fuori. Il disegno sì, il lavoro sì, ma la cosa più importante per me è la realtà che sta fuori, stare a contatto con la natura, sentirsene parte, viverla. Mi piace disegnare la natura, è importante per me, ma è più importante viverla.
Quando devo disegnare mi preparo. Devo essere concentrato, devo essere da solo, dev’essere il momento giusto… ogni volta mi sembra di andare in guerra! Allora alle volte decido di uscire a passeggiare. Penso che se dovessi disegnare tutto il tempo, se dovessi stare qui dentro a disegnare dodici ore al giorno… aiuto! Mollo tutto e me ne vado a passeggiare, senza remore. Esco e me ne sto una giornata fuori. Sono felice così, quando me ne sto lì fuori, anche per poco. Vivere qui  significa che quando voglio esco di casa e fuori c’è tutto. Quando sono nella natura ho coscienza di farne parte, mi sento a casa. Sono un animale tra gli animali, sono un albero tra gli alberi, sono un fiume nel fiume. Ne faccio parte. La mia casa è lì fuori, non chiuso qui dentro.
Non è che vivo in questo stato di estasi perenne, ma succede spesso. Mi rende felice. Da qui poi nasce anche il discorso che è qualcosa da preservare, da conoscere meglio e a un certo punto anche da difendere, visti gli esiti della nostra presenza.”

In questa piccola oasi che si affaccia sul fiume – dove in qualsiasi momento si può decidere di risalire una delle colline che la circondano per guardare lontano, o sostare sotto a un grande pioppo a osservare il vento tra le foglie incorniciate dal cielo e dalle nuvole – grazie all’incontro con Rocco, ho approfondito quanto sono lontana da me stessa, dalla mia natura e quindi dalla felicità.
Abitiamo un quadro in continuo mutamento, in cui tutto nasce, cresce e muore. Questa è la vita. Come possiamo essere felici nella vita se non godendo della vita stessa? Come alberi, montagne, uccelli… liberi.
Non vi siete mai trovati a osservare un bambino giocare liberamente, o un cane riposare al sole? Non avete mai guardato gli uccelli volare?
Non vi siete mai chiesti come mai questo diritto di esistere semplicemente vi è negato?
Non vi siete mai chiesti chi ha deciso che dobbiamo per forza costringerci in un’esistenza fitta di impegni per ottenere (o comprare) le cose che ci renderanno felici?
Ho ricordato le parole di José Mujica nel film Human di Yann Arthus-Bertrand, che ho visto a Parigi alla Fondation GoodPlanet:

“O riesci a essere felice con poco, perché la felicità è dentro di te, o non ottieni niente. Questa non è un’apologia della povertà, è un’apologia della sobrietà. Ma siccome abbiamo inventato una società di consumo, consumista, e l’economia deve crescere perché se non cresce è una tragedia, inventiamo ogni giorno una montagna di consumo superfluo che ci obbliga a consumare, e a vivere comprando per poi buttare. Ma ciò che stiamo consumando è la vita, perché quando io compro qualcosa – o tu – non lo compri con i soldi, lo compri con il tempo di vita che hai dovuto spendere per avere quei soldi. Ma con un’unica differenza: l’unica cosa che non si può comprare è la vita. La vita si consuma. Ed è m i s e r a b i l e consumare la vita per perdere la libertà. Credo che la vita sia così bella da doverle dare altri contenuti.”

Naturalmente con Rocco abbiamo parlato anche della sua vita e di cosa lo ha spinto a prendere alcune decisioni invece di altre…

“Da bambino leggevo tantissimi fumetti, e come a molti mi piaceva disegnare, ma nell’età forse più interessante, non sentendomi bravissimo, e dovendo decidere cosa diventare da grande, decisi di seguire ciò per cui mi sentivo più portato e studiare per diventare un ingegnere elettronico.
Alle superiori continuai a leggere fumetti, e quando scoprii Andrea Pazienza non riuscivo a credere che ci fossero anche fumetti che parlavano di vita vera, e non solo di avventura e storie fantastiche. Anche se le cose intorno alla droga non mi appartenevano per niente, i fumetti di Pazienza parlavano di una certa gioventù, di adolescenza, di certi movimenti che mi interessavano. Poi lessi Robert Crumb e altri autori americani, scoprii il fumetto italiano, e riviste come Il Grifo, Corto Maltese e altre che non ricordo più. Iniziai a sentire di avere tante cose da raccontare. Mi ero guardato intorno, avevo preso coscienza dell’impatto che abbiamo come esseri umani sul pianeta, grazie ai libri, ma soprattutto ascoltando certi gruppi musicali che facevano informazione e propaganda, erano gruppi punk e hardcore, che mi fecero capire che non volevo più studiare ingegneria, che non era la mia strada. Avevo idee diverse sul mondo, non mi andava più di partecipare a una civiltà a cui mi sentivo contrario. Così, a diciannove anni, con il diploma in mano, di fronte alla vita mi sentivo spacciato, troppo vecchio per tornare indietro e studiare arte, con i miei genitori che mi chiedevano: “Cosa farai nella vita?”. Mi sentivo finito…
Entrai alla Scuola Internazionale di Comics a Roma e capii che fare il disegnatore di fumetti è un lavoro massacrante, con consegne che impongono di lavorare otto, dieci ore al giorno, a meno che non si appartenga a quell’olimpo dei superfortunati che hanno un talento speciale e sono velocissimi! Esistono, li ho visti, ma sono veramente pochi. Furono tre anni di lavori forzati in cui capii che non era il fumetto tipo Dylan Dog quello che volevo fare. Ma soprattutto capii che soffrivo la città. Vivevo e vivo tuttora malissimo il contesto metropolitano, appena arrivavo a Roma mi veniva il mal di testa e tornavo a casa distrutto, era una cosa psicosomatica. Feci un corso di illustrazione in cui mi si aprì un altro mondo ancora, in cui imparai le tecniche tradizionali. Lavorai come decoratore, feci il writer di notte (bellissimo!). Ma nel contesto provinciale in cui vivevo, sebbene mi piacesse e ci stessi benissimo, perché amavo il mare e le colline, non avevo nessuno con cui confrontarmi, non avevo stimoli, era una realtà troppo ristretta, al punto che, raggiunti i trentasei, trentasette anni, rischiai la follia. In un contesto come quello in cui vivevo arriva il momento in cui o ti droghi pesantemente o ti allinei alla vita che fanno tutti: lavoro, casa, famiglia. Io ero un outsider, per fortuna non mi drogavo, non mi sono mai distrutto, ma stavo in mezzo a chi si distruggeva, agli emarginati. Mi sembrò di non avere più nulla davanti e dissi basta. Da un momento all’altro, senza sapere cosa fare, me ne andai a Bologna.
Pur essendo comunque oltre, in quanto città, Bologna non lo è troppo. La conoscevo per Bil Bol Bul, per le mostre, ed è l’unica città che un po’ mi piace, anche se coltivare la mia passione per l’Appennino mi ha poi portato a uscire dalla città.
Per vivere faccio il facilitatore grafico, mi viene abbastanza bene. Faccio mappe concettuali, mappe mentali, è un modo creativo per prendere appunti, per visualizzare concetti, anche molto complessi. Lo faccio in presenza, durante una conferenza, una riunione.”

Normalmente chiedo qual è il sogno. Ma Rocco il suo sogno lo vive ogni giorno in cui può andare là fuori, come dice lui, e sentirsi parte della natura. Grazie Rocco.

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