LA VENERE ANATOMICA
LA VENERE ANATOMICA
di Joanna Ebenstein
A uno sguardo contemporaneo, la Venere anatomica risulta quantomeno sconcertante. Una statua in cera di donna a grandezza naturale ed estremamente realistica, con tanto di capelli setosi, ciglia finissime e labbra d’un bel rosso vivo, sdraiata in una posa sensuale a metà tra estasi divina e piacere erotico e – al tempo stesso – con gli organi interni in bella mostra. Non è semplice comprendere oggi il contesto storico, sociale e culturale in cui queste sculture furono concepite e realizzate, tra il XVIII e il XIX secolo. All’epoca, infatti, altro non erano che strumenti perfetti per l’insegnamento dell’anatomia umana, perché dispensavano dalla pratica della dissezione di cadaveri, molto meno attraenti nonché disagevoli in fatto di pulizia e non sempre facili da reperire. Ma c’è di più. La Venere anatomica ci parla anche di un tempo in cui religione, arte, filosofia e scienza coesistevano in maniera pacifica e si compenetravano con una fluidità per noi impensabile. In essa possiamo scorgere un atteggiamento nei confronti della vita ormai perduto: un atteggiamento che non rifiuta il mistero e l’arcano e che, anziché dividere, unifica. Dopotutto, se il corpo umano era diretta espressione della volontà divina, penetrarne i segreti significava decifrare la mente di Dio.
Ma come e dove nacque la Venere anatomica? E perché assunse proprio quelle sembianze? Come si spiega il suo trovarsi in bilico tra mito e medicina, offerta votiva e tradizione vernacolare, arte e feticcio? Come si è evoluto il suo utilizzo nei secoli e che rapporto intrattiene con le bambole e gli automi odierni?
Sono questi gli interrogativi affrontati da Joanna Ebenstein nel suo libro, secondo di tre volumi dedicati alla storia della medicina pubblicati da #logosedizioni (completano la serie Il sorriso rubato – sull’evoluzione dell’odontoiatria e della figura del dentista dalla preistoria ai giorni nostri – e Interventi cruciali – sui progressi e le trasformazioni della chirurgia nel XIX secolo). Avvalendosi del contributo di numerosi storici dell’arte e della medicina, teorici della cultura e filosofi, l’autrice ci accompagna in un viaggio conturbante che ci porta a mettere in discussione molte certezze date per assodate nel mondo occidentale del XXI secolo. A supporto visivo del testo, inoltre, troviamo una gran quantità di splendide fotografie che ritraggono esemplari di Veneri anatomiche conservati nei musei di tutto il mondo (tra i quali spiccano La Specola a Firenze e Palazzo Poggi a Bologna), nonché riproduzioni di illustrazioni tratte da antichi manuali di anatomia, dipinti, rari reperti e documenti d’epoca provenienti in parte dall’archivio della Wellcome Library di Londra e da quello personale di Ebenstein.
La Venere anatomica più famosa, sebbene non la prima in ordine cronologico, è senza dubbio la cosiddetta “Venere dei Medici” realizzata tra il 1780 e il 1782 da Clemente Susini, maestro ceroplasta nell’officina del Museo di fisica e storia naturale “La Specola” di Firenze. Il museo fu fondato nel 1775 da Leopoldo II d’Asburgo-Lorena, sovrano “illuminato” salito al potere con il titolo di Granduca di Toscana solo dieci anni prima. Il suo intento era creare un luogo pubblico che educasse i cittadini allo studio e alla comprensione delle leggi della natura, grazie a reperti che andavano da piante e minerali ad animali impagliati e strumenti scientifici; in pratica, un’evoluzione illuministica del concetto di Wunderkammer. L’incarico di sovrintendere alla creazione di tale “tempio della scienza” fu affidato al fisico di corte e naturalista Felice Fontana, il quale allestì l’officina di ceroplastica con il progetto dichiarato di produrre “un’enciclopedia in cera del corpo umano” che rendesse definitivamente obsoleto il ricorso alla dissezione di cadaveri per l’insegnamento dell’anatomia. Sotto la sua direzione fu dunque realizzato un gran numero di cere anatomiche e di Veneri a figura intera, di cui l’unica scomponibile ancora oggi presente nella collezione è proprio la Venere dei Medici, tuttora conservata nella teca originale di palissandro e vetro di Murano dove, distesa su un morbido lenzuolo di seta, sfoggia ciglia e capelli veri, un paio d’occhi di vetro scintillanti e un filo di perle al collo. Sollevando uno dopo l’altro gli strati di cui è composta, è possibile rivelare gli organi interni riprodotti con estrema accuratezza, fino a scoprire un piccolo feto raggomitolato nel grembo.
Naturalmente, il richiamo alla figura di Venere non era affatto casuale. La dea, infatti, intratteneva da lungo tempo uno stretto rapporto con la città di Firenze ed era raffigurata in alcuni dei più famosi dipinti ospitati nella culla del Rinascimento, come la Nascita di Venere di Botticelli o la Venere di Urbino di Tiziano, tappe obbligate per i giovani aristocratici europei che intraprendevano il Grand Tour. L’obiettivo era quindi rendere La Specola una nuova, imperdibile attrazione che fosse all’altezza dei grandi fasti del passato.
Oltre che alle arti figurative e ai precedenti modelli anatomici in cera realizzati a scopo didattico a partire dall’inizio del XVIII secolo, i modellatori della Specola facevano riferimento anche alle illustrazioni dei manuali di anatomia, che spesso assumevano la forma di “fogli volanti” con lembi di carta da sollevare per rivelare le strutture interne del corpo umano. Altri precursori possono poi essere individuati nei cosiddetti “manichini anatomici”, piccole figure femminili scomponibili scolpite in legno o in avorio che, sebbene presentassero organi interni e persino un minuscolo feto nel ventre, erano poco accurate e avevano uno scopo più ornamentale che educativo. Risalendo più indietro nel tempo si può arrivare ancora una volta al Rinascimento, quando per la prima volta si assistette alla diffusione dell’interesse per l’anatomia umana tra il grande pubblico e tra gli artisti in particolare, i quali la studiavano al fine di riprodurre i loro soggetti nel modo più realistico possibile. Così Leonardo, Michelangelo e gli altri praticavano essi stessi dissezioni di cadaveri, e fu proprio grazie a questo “sporcarsi le mani” che il medico fiammingo Vesalio fu in grado di correggere molti errori tramandati da tempo nell’insegnamento dell’anatomia. Il suo De humani corporis fabrica e i successivi atlanti di anatomia ricchi di illustrazioni affidabili fornirono ai modellatori della Specola un ottimo punto di partenza – insieme all’osservazione diretta di pezzi di cadavere – per la loro paziente opera di riproduzione degli organi interni.
Per quanto riguarda invece l’utilizzo della cera, bisogna dire che questo materiale è stato associato fin dall’antichità alla sfera religiosa, magica e funebre, per il fatto di ricordare molto da vicino l’aspetto della carne umana. In Egitto e a Roma, ad esempio, vi si realizzavano maschere, effigi e dipinti funerari, ma fu soprattutto il cristianesimo (e il cattolicesimo in particolare) a incentivarne e diffonderne l’uso, dal momento che si trattava di una sostanza evidentemente affine al corpo dell’uomo: fragile, transitoria, malleabile. Il culto dei santi giocò un ruolo fondamentale in questo senso, perché elevava a feticcio i loro resti mortali, a cui venivano attribuiti poteri miracolosi. Le chiese commissionavano numerosi ritratti a grandezza naturale di santi e martiri (in gesso, legno o cera) che venivano esposti accanto alle loro reliquie o utilizzati direttamente come reliquiari in cui conservarle. Particolarmente fiorente era anche il mercato degli ex voto anatomici in cera (per i quali la città di Firenze era assai rinomata), che di solito assumevano la forma della parte di corpo malata di cui si chiedeva o si commemorava la guarigione oppure – nel caso dei fedeli più ricchi – di ritratti a grandezza naturale. Altri ambiti di utilizzo della cera erano le cosiddette “sacre rappresentazioni” allestite in alcune chiese, spettacolari quadri viventi in cui delle statue posavano accanto a veri cadaveri umani, oppure i memento mori, opere d’arte che prendevano la forma di sculture, teatrini o tableaux e il cui scopo era rammentare agli osservatori la propria natura mortale per spingerli a condurre una vita retta. Per rendersi conto dello stretto legame che unisce questi manufatti e le Veneri, basti pensare che molti degli artisti che li producevano passarono poi a occuparsi della realizzazione di modelli anatomici anche per committenti importanti come Leopoldo II e papa Benedetto XIV. Quest’ultimo, pontefice “illuminista” e grande sostenitore del metodo sperimentale e della medicina in particolare, alla metà del XVIII secolo rilanciò l’Istituto delle Scienze di Palazzo Poggi a Bologna, dotandolo tra l’altro di una “Stanza di Notomia” con otto statue di cera in posizione eretta e a grandezza naturale: quattro uomini scorticati, due nudi integrali raffiguranti Adamo ed Eva, e due scheletri muniti di falce che simboleggiano angeli della morte, a ulteriore conferma della mancanza in quell’epoca di una netta linea di demarcazione tra scienza e religione.
Oltre ai musei, anche i teatri anatomici delle città universitarie offrivano la possibilità di visitare liberamente le collezioni di campioni esposte. In questi luoghi si eseguivano anche dissezioni pubbliche che erano occasione di istruzione e intrattenimento. I nostri antenati, infatti, avevano un rapporto con la morte molto diverso da quello che abbiamo noi, semplicemente perché era un avvenimento molto più frequente nella vita di tutti i giorni. Così le esecuzioni dei criminali erano vissute come uno svago e una delle principali attrazioni turistiche parigine nel XIX secolo erano i cadaveri esposti all’obitorio (preferibilmente donne e bambini della cui morte si era parlato sui giornali).
Sempre nel XIX secolo si assistette a un proliferare di forme di intrattenimento educative a carattere scientifico, indirizzate alla nuova classe operaia urbana che disponeva di maggior denaro e tempo libero. Tra queste ebbero molto successo i musei anatomici popolari (fissi o itineranti), che esponevano veri campioni umani e un vasto assortimento di modelli in cera raffiguranti ad esempio diversi tipi di malformazioni, le varie “razze” umane o gli effetti devastanti delle malattie sul corpo umano (e in particolare sui genitali). Le Veneri anatomiche erano spesso il pezzo forte di tali collezioni, la cui reputazione però andò scemando nel tempo a mano a mano che mediconzoli senza scrupoli cominciarono a sfruttarle per terrorizzare i visitatori e vendere loro miracolosi rimedi.
Un ultimo aspetto delle Veneri anatomiche analizzato dall’autrice è il miscuglio di emozioni che generano in un osservatore contemporaneo. L’inquietudine e lo spaesamento sono sicuramente tra queste, tanto che le statue possono essere considerate un classico esempio di “perturbante”, ovvero quella sensazione di “familiare ma estraneo” che si prova quando si guarda, ad esempio, un corpo umano all’apparenza vivo e morto al contempo. All’epoca in cui furono realizzate, però, questa impressione doveva essere attenuata dal fatto che il soprannaturale, al contrario di oggi, rappresentava una chiave di lettura del mondo comunemente accettata. Del resto, anche il concetto di “estasi” si è evoluto in modo significativo rispetto al passato. Se oggi infatti tendiamo ad associarlo prevalentemente alla sfera sessuale – e quindi ad attribuire alle Veneri e alle loro pose languide una forte carica erotica – bisogna ricordare che nei secoli scorsi l’esperienza estatica veniva interpretata per lo più come espressione del sacro, del mistico: basti considerare la moltitudine di statue di santi e martiri esposte nelle chiese in pose che oggi definiremmo quantomeno “ambigue”, di cui l’esempio più noto è forse la Transverberazione di santa Teresa d’Avila del Bernini.
Una delle caratteristiche più affascinanti della Venere anatomica nel XXI secolo è proprio questa: la sua capacità di farci mettere in discussione idee che riteniamo universali e immutabili, come il nostro rapporto con la vita e la morte, con l’irrazionale e l’arcano, con la spiritualità e la sessualità. È nata per mostrarci il funzionamento interno del corpo umano, ma oggi ha molto da dire anche sulla nostra mente e sul nostro animo.
Focus a cura di Federico Taibi
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Joanna Ebenstein è artista, curatrice, scrittrice, insegnante e graphic designer. È impegnata nella ricerca e nell’indagine di parole, immagini e luoghi in cui il mito, l’incredibile, l’arte e la scienza coesistono. Fondatrice e curatrice del sito web e del blog Morbid Anatomy, ha collaborato con numerose istituzioni, tra cui la New York Academy of Medicine, il Dittrick Museum e il Vrolik Museum.