INCONTRI

MARIO CIAMPI. L’ARCHITETTURA E LA RAPPRESENTAZIONE DEGLI SPAZI INTERNI.

Ero abbastanza combattuta sull’andare a Venezia, dopo essere stata a Sasso Marconi da Rocco, ancora persa nella libertà e nella natura, così lontana da quell’immagine turistica e affollata di gente… Poi, passata Mestre, la trepidante attesa di vedere la laguna, uno dei miei paesaggi preferiti in Italia, il ricordo di tanti viaggi, di tanti momenti passati con i miei bambini, con cui fino a ieri facevo questo viaggio, ma l’acqua della laguna era sporca. Sono scesa a Santa Lucia, incapace di decidere se mi piaceva o meno l’idea di essere lì. Per mia fortuna il Covid ha fermato la maggior parte dei turisti, e quindi Venezia era solo la magnifica Venezia, con la laguna, il sole, un venticello fresco di mare, e Mario.

Siamo partiti da piazza San Marco, rispettando quello che è sempre stato il mio rito famigliare, ma Mario mi ha mostrato forse l’unico punto della piazza su cui non mi ero mai soffermata: il negozio Olivetti di Carlo Scarpa, con le macchine da scrivere dei tempi che furono, e che mai più torneranno, se non sullo schermo di qualche appassionato di cinema che si guarda un vecchio film di Cronenberg (scusate l’interruzione brusca ma da quando l’ho visto non posso fare a meno di pensarci). E dopo essere stata guidata nell’osservazione dei dettagli del cancello, degli arredi, delle finiture – fatta esclusione per le prese sul soffitto che ho notato da sola (ma sempre grazie a Mario, che durante la nostra visita di qualche anno fa agli Uffizi mi ha insegnato a prestare attenzione a certi dettagli, o brutture, distraendomi dall’oggetto del mio reale interesse) – dopo aver guardato le Olivetti esposte, ed essermi chiesta intimamente: “Chissà che fine ha fatto la mia?”, ecco che Mario, dal treno e, ancor prima, dall’appennino bolognese, mi scuote e mi sveglia con una delle sue riflessioni, che a seguire vi riporto, e che mi ha riportato a una grande verità: amo la natura intellettuale della mia specie, le sue costruzioni e le sue opere, probabilmente a causa di una disfunzione della mia natura, di un mio difetto temo congenito. Non sono ancora pronta a trasformarmi in albero. Sono un essere umano. Appartengo a quella specie che vede la bellezza delle proprie costruzioni anche se innecessarie e primitive, anche se determinanti nella distruzione del suo ecosistema. E tornata (purtroppo) in me ho respirato la laguna e la giornata che mi si spalancava davanti. Che bella, Venezia! Che città meravigliosa!

Mario. Il destino della fotografia, secondo me, è analogo a quello che è successo alla calligrafia quando è stata inventata la macchina da scrivere, ovvero, mentre una volta la scrittura aveva una forma e quindi c’era una disciplina che si occupava di dare forma al contenuto della lettera, rendendola bella, l’invenzione dello strumento macchina da scrivere ha reso inutile tutta questa parte dell’abbellimento e l’interesse è andato tutto esclusivamente al contenuto, a quello che sta scritto. Così come prima nella scrittura c’era un doppio livello: quello che c’era scritto nella lettera e come era stato scritto, come era stato reso bello; anche nella fotografia analogica, proprio come nella calligrafia, esisteva una doppia fase: scatto, sviluppo e stampa e poi l’interpretazione. Non essendo così automatica, la fotografia non veniva sempre, e c’era una disciplina che regolava la produzione di queste immagini, c’erano quindi una grammatica, una sintassi, una tecnica da apprendere. Tutto questo oggi non serve più. Adesso nella fotografia, con l’uso di questi strumenti tecnologici, telefonino e altri, che hanno reso immediata la produzione dell’immagine (scatto, invio, guardo, comunico) e la sua fruizione in un’unica fase (scatto e visione), l’immagine si produce istantaneamente, e nessuno sa più a cosa servono il diaframma, la profondità di campo, la sovraesposizione, la sottoesposizione, la temperatura colore, tutte cose non più necessarie.
Il modo di fare fotografia oggi corrisponde all’immediatezza nel guardarla: ti arriva sul telefonino, la guardi mezzo secondo e poi ne vedi un’altra. Come è successo alla scrittura, che corrisponde al suo contenuto, la fotografia oggi corrisponde alla cosa che rappresenta, e conoscere il modo in cui questo avviene non è più necessario. Come il calligrafo aveva il compito di fare le maiuscole, il fotografo rendeva bello quello che la fotografia rappresentava. Questa dimensione non è più necessaria, e quindi il fotografo non è più necessario. Questo non è né un bene né un male, è un cambiamento. La fotografia oggi è un’altra cosa.
La fotografia digitale non implica soltanto l’uso di uno strumento al posto di un altro, cambia tutto quello che ci gira intorno: cambia la fotografia come lavoro, cambia il modo in cui si guarda… Una volta la fruizione della fotografia era simile a quella dell’arte figurativa, la si guardava quindi lentamente, dedicandole la stessa attenzione e confrontandola con la propria esperienza, con la propria formazione culturale, ma adesso tutto questo non avviene più. La foto tutt’al più si può confrontare con un’immagine televisiva, con una cosa molto più rapida, una fruizione istantanea, rapidissima.
Ciò che rende la fotografia diversa dalle altre forme d’arte non appartiene alla sua parte fisica, sono macchie su un foglio di carta che non cambiano la vita a nessuno, comunque le metti, queste macchie, non la giustificano, non la rendono interessante. È la connessione tra il qui e ora e l’altrovee l’altro tempo che fa scattare l’interesse, la scintilla. Quando si innesta questo salto, che avviene ad esempio quando guardi le foto a cui sei affezionato, come la foto della tua nonna che hai fotografato sotto il noce in giardino, e che adesso è morta e sepolta, in qualche modo questa esperienza riesce a coinvolgere l’emozione. L’artista fotografo fa sì che questa emozione sia condivisibile anche con gli altri, ti fa entrare in contatto con questa sua emozione che ha provato mentre scattava la fotografia, ma proprio perché ti fa fare questo salto nel tempo e lo spazio. La fotografia è proprio questo, quel collegarti a quel frammento di realtà. È questo il bello della fotografia: il suo realismo. La fotografia ha questa straordinaria flagranza di realtà, a cui l’artista ti collega. È un momento vero, c’è stato un frammento di secondo in cui quella realtà è esistita, in cui era esattamente così, e la fotografia l’autentica.

Perché hai scelto di diventare fotografo?
Mario. Per pigrizia. Avrei fatto l’architetto, ma è una disciplina molto complessa, e praticandola per un certo numero di anni mi ha portato alla seguente conclusione: ho delle qualità per farla, e non ho le qualità necessarie. L’architettura è una produzione molto complicata in cui l’architetto è come un generale. L’architetto deve avere la struttura di Napoleone, deve guidare le truppe all’assalto, deve combattere contro un nemico, deve mediare, dev’essere un politico. Soprattutto dev’essere molto bravo nelle mediazioni con il potere, con il committente. La costruzione è una roba lunghissima che dura decenni… Ecco, io tutta questa cosa non ce l’avevo e quindi avevo bisogno di una cosa che potessi fare da solo, per la quale avessi la minor quantità di relazioni sociali possibili, che potessi fare indipendentemente dagli altri, che potessi svolgere da solo, senza bisogno di nulla. Non avevo una passione per la fotografia, la facevo perché mi era utile per il mio lavoro, quando ero studente e fotografavo le cose che mi servivano. Poi ho capito che poteva anche essere un lavoro, e l’idea – adesso potrebbe sembrare una cosa quasi assurda – allora era quasi originale, perché non c’erano gli architetti che diventavano i fotografi dell’architettura. Adesso è diventata un’ovvietà, ce ne sono decine di migliaia.
All’inizio pensavo di fare fotografia di architettura, pensavo si trattasse di un unico campo, poi praticandola ho scoperto che a sua volta si poteva dividere in specializzazioni, per le quali avevo più o meno sensibilità.
Anche la scelta di diventare un fotografo di interni è venuta un po’ per pigrizia. All’interno ad esempio sei sempre al coperto, ti gestisci le cose con maggior libertà e quindi è più comodo; mentre all’esterno sei esposto alle intemperie, devi aspettare se piove, che il sole sia dalla parte giusta…
Poi ho anche scoperto di avere un particolare interesse e amore per l’interno, per tutto quello che lo riguarda. L’interno è una storia complessa che ha architettura, arredi, oggetti grandi e oggetti piccoli, le finiture. Ho capito che, rispetto alla progettazione dell’architettura, la progettazione dello spazio interno è infinitamente più difficile, più complessa. L’architettura, tutto sommato, ti basta un’idea per farla, l’interno invece con un’idea sola diventa una cosa noiosa, perché ha bisogno di tanti livelli che si devono sovrapporre affinché sia piacevole, funzioni e sia bello da vedere. Questi livelli cambiano e attingono agli ambiti più disparati.
L’arredo degli interni non è una disciplina, ma un approccio multidisciplinare, con degli aspetti che hanno evidentemente a che fare con l’architettura, ma anche con il design, la storia, la geografia, il costume e la moda, l’arte… perché l’interno raccoglie tutte queste dimensioni. Ha a che fare con la cultura alta e anche con la cultura bassa, ha bisogno anche di un po’ di ironia, di cattivo gusto, di un po’ di esagerazione. Un interno solo alto è noioso, non è interessante. Un progettista d’interni gioca con il cattivo gusto, la sorpresa, l’eccesso. È un equilibrio molto difficile, e non essendo riconducibile a una sola disciplina è anche difficile impararlo, praticarlo. Non ci son libri che te lo possano insegnare, devi vedere degli interni, devi cercare di capirli e comprenderli, studiarli, e non è facile, perché come fai a vederli?
Spesso sono le donne che fanno le arredatrici, oppure i gay, questa è una semplificazione anche un po’ stupida, come se tutto fosse riconducibile a una ‘sensibilità’. È vero che potrebbe essere una scorciatoia, ma in realtà il vero, il bravo progettista d’interni, è indifferente se è uomo, donna, gay: è soprattutto una persona preparata, una persona che ha studiato, che ha la sensibilità ma anche tanti altri strumenti. È molto difficile trovare un interno che soddisfi tutti questi livelli di complessità.
Purtroppo la visione che le persone hanno della progettazione di interni, che deriva dall’aver sfogliato per tre volte una rivista per signora dal parrucchiere, non corrisponde alla complessità del tema, alla sua profondità. Le stesse sovrintendenze non hanno le competenze per comprenderne l’importanza, e infatti autorizzano che si disperdano gli interni, stanno attenti che tu non faccia un buco nel muro, ma degli arredi chissenefrega, si possono mettere all’asta, perché neppure loro hanno gli strumenti culturali per comprenderne la ricchezza e l’importanza artistica e culturale.
Secondo me ci sono dei limiti, il fatto che una persona quando compra un interno possa farci quello che vuole francamente lo trovo leggermente barbaro.
Quando decidi di comprare all’asta una Pietà di Michelangelo, perché hai i soldi per comprarla, non puoi farne polvere di marmo e usarla per fare lo stucchino sulla parete, non lo puoi fare, è proibito. Ci sono tante cose straordinarie che puoi comprare e con le quali non puoi fare quello che ti pare, perché quando raggiungono un interesse collettivo non possono essere solo tue. L’interesse collettivo prevale su quello personale. È un vincolo della vendita, e il prezzo ne tiene conto, ma questo vincolo esiste e ci sono leggi al riguardo. Questo secondo me si deve trasferire anche agli interni. Non puoi comprare un palazzo storico e abbatterlo per costruirci un grattacielo solo perché l’hai pagato, c’è un piano regolatore che ti dice che non lo puoi abbattere. Non è un concetto originale, va solo esteso alla sfera dell’interno che sfugge all’interesse di molti, evidentemente.
Spesso nell’interno si accumulano storie che sono belle e importanti da ricordare, un po’ perché ci sono degli oggetti che sono eccezionali, ma anche per il modo in cui questo ambiente e gli oggetti che vi si sono depositati raccontano delle storie che sono interessanti per tutti.

Palazzo della Stufa, Firenze © Mario Ciampi

A Palazzo della Stufa a Firenze, i cui arredi sono andati dispersi, è stata consentita l’asta perché, innanzitutto, era relativamente recente – era degli inizi del Novecento – e poi perché era stato fatto con un gusto un po’ eclettico, un po’ internazionale, che aveva ben poco a che fare con il gusto toscano, ma questo era esattamente ciò che lo rendeva interessante. Non per queste ragioni andava disperso, ma piuttosto per queste ragioni andava conservato! Raccontava un periodo di Firenze che si ricostruiva in quegli spazi. In quei decenni Firenze era al centro del pensiero storico artistico: c’era Berenson che stava ai Tatti, Longhi che stava sulla collina opposta, Acton che stava alla Pietra… In quel momento Firenze era un crocevia internazionale e il Palazzo della Stufa era il salotto dove queste cose accadevano. Gli oggetti che lo arredavano raccontavano questa storia. Passava Cecil Beaton e faceva una fotografia alla padrona di casa, che la metteva in una cornice dorata, su un tavolino di velluto rosa progettato da un grande decoratore del momento che era Beistegui. Tutto questo è una storia ricca, è un documento. Perché si deve disperdere? È un peccato. Io sarei per allargare la proibizione di smembrare gli interni, di molto, perché sono molti gli spazi che meritano questa attenzione. Chi compra una casa e il suo interno è di passaggio, la casa è più importante di chi la possiede, perché c’era prima e ci sarà anche dopo.

Palazzo della Stufa, Firenze © Mario Ciampi

Alla base di tutto ci dev’essere la comprensione e il rispetto degli interni, non devono essere terreno di conquista. L’esterno non si tocca e dentro si fa quello che ci pare? Ma chi l’ha detto? Io farei una battaglia su questo tema, perché è una cosa che mi accalora. Mi indigna. Ho visto talmente tante case distrutte, ho visto dei danni irreparabili causati dall’uomo. L’uomo nella casa ha fatto come nella natura: ha distrutto tutto, quindi io gli metterei dei vincoli molto forti, perché la casa è più importante dell’uomo.
Alla base di questa rozzezza c’è l’ignoranza della materia, ed è un’ignoranza veramente molto diffusa e abissale, a partire dalla sovrintendenza. Poi ci sono gli architetti, gli addetti ai lavori, che della materia non capiscono niente, e in più sono pericolosissimi perché hanno la presunzione di occuparsene. Io non ho mai conosciuto un architetto che avesse letto Mario Praz o che avesse letto un qualsiasi libro sulla casa, sugli interni, eppure presumono di sapere tutto. È vero che c’è poca letteratura al riguardo, ma qualcosa c’è.

Palazzo della Stufa, Firenze © Mario Ciampi

A cosa attribuisci la mancanza di un corso di interni alla facoltà di architettura?
Mario. Quando l’ho fatta io, per esempio, c’era questa componente politica, questa cosa estremamente ideologica per cui l’architettura era strumento della repressione o strumento della rivoluzione, a seconda di come vedevi la faccenda. Per cui chi si occupava di queste cose, non si poteva occupare degli interni, perché c’è questa idea diffusa che sono una cosa frivola, come la moda, l’acconciatura dei capelli, una cosa che viene relegata a una dimensione un po’ “da donne”, da persone sensibili… Ci si deve occupare della sostanza delle cose, non di quella che invece sembra superficialità. Io non nego l’importanza dell’architettura, ma non nego neppure l’interno, lo trovo un terreno di grande fertilità per l’intelligenza, ed è per questo che mi piace fotografarlo.
Prima di tutto mi piace guardare, di fotografare gli interni potrei fare anche a meno, se avessi in altro modo l’opportunità di vederli e di passarci anche del tempo, perché non basta darci un’occhiatina, bisogna guardarli attentamente, studiarli. La fotografia è un po’ una scusa perché questo avvenga, per starci un giorno e guardare in un buchino per dodici ore, mettendoti parallelo, dritto, in basso, cercando il dettaglio da immortalare. Guardare bene è un modo di comprendere, ti consente di esserci. Non puoi bussare alle porte e dire: scusi mi fa vedere il soggiorno? Quindi se devo fotografare per vedere, pace.
Su come fotografare ho naturalmente la mia idea.
È sbagliato pensare che la rappresentazione dello spazio attraverso la macchina fotografica sia una questione di fotografia. La fotografia è solo un aspetto, diciamo marginale, del tema vero: come si rappresenta lo spazio, qual è il tipo di prospettiva più adatta per raccontare com’è fatto lo spazio. Il modo in cui lo vede l’uomo purtroppo non corrisponde a nessun sistema di prospettiva che si possa ricostruire, è diverso. I sistemi di riproduzione dello spazio, sia graficamente che fotograficamente, possono essere di due o tre tipi, e non hanno nulla a che vedere con la visione. I sistemi grafici e fotografici condividono gli stessi sistemi geometrici che sono delle analogie diciamo della realtà che si proiettano su una superficie bidimensionale, che può essere piana, toroidale, o sferica. Potendolo fare sia graficamente che fotograficamente, non c’è una differenza sostanziale, secondo me, tra il disegno e la fotografia, mentre è sostanziale tra la visione e gli altri due sistemi.
Io trovo che la fotografia si inserisca in questa traduzione di rappresentazione dello spazio, e quindi va vista, non solo confrontandola con la storia della fotografia, ma con la storia della rappresentazione dello spazio e quindi andando indietro nei secoli.
Adesso la fotografia è questa cosa, ma nel futuro ci saranno probabilmente altri strumenti, no? Quindi probabilmente sarà un’altra cosa, che si dovrà confrontare con i capitoli del processo, per cui io vedo la fotografia in questa prospettiva storica. Quello che sarà nel futuro non lo so, non ho idea neanche di quali saranno i modi per fruirla, può darsi che ci si metterà uno spinotto direttamente nel cervello, può darsi che sparisca. Adesso però è così, e quando guardo le fotografie, quelle che mi piacciono sono quelle che mi fanno pensare a questa tradizione di rappresentazione, in particolar modo, come tu sai, a questi straordinari esempi di acquerelli di interni che secondo me sono il riferimento. Era un’idea bellissima, quando non esisteva tutta questa abbondanza di immagini, e le famiglie che avevano diversi palazzi distanti tra loro magari settimane di viaggio – perché non esistevano i treni né tantomeno gli aerei – e volevano raccontare agli altri che avevano una casa al mare, ma non avevano l’Iphone, per fargliela vedere commissionavano un album di acquerelli di interni. Era una disciplina specifica, c’erano degli specialisti che facevano solo quello: gli acquerellisti di interni. Io, fotografo, sono subentrato a loro, è esattamente lo stesso lavoro.
Una volta, se non volevano raccontare la loro casa e gli interni solo a parole, ingaggiavano questi specialisti che stavano nel palazzo anche dodici anni per fare quaranta acquerelli degli spazi, producendo un albumino prezioso che veniva portato da un’altra parte per essere condiviso. Io mi confronto con questa tradizione, e vorrei fare quella cosa lì, vorrei che mi chiamassero per documentare la loro casa, per farne un album, una copia sola da tenere in casa e far vedere agli altri.

Purtroppo tutto ha una fine e sono dovuta rientrare nel mio qui e ora, ma spero concorderete con me nel pensare che siano riflessioni interessanti su cui soffermarsi.

#TertuliaILLUSTRATI con Mario Ciampi su youtube

Mario Ciampi, laureato in architettura all’Università degli Studi di Firenze, specializzato in fotografia di architettura di interni, editore della casa editrice inglese Verbavolant, ha lavorato per Casa Vogue, Domus, Interni, Elle Decor, AD USA, Phaidon, Thames & Hudson, Taschen. Ha curato una ventina di cataloghi per Sotheby’s Inghilterra e Italia. Dal 2009 fotografa i negozi del gruppo Prada e Bulgari in tutto il mondo.

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