#suldivanoleggo,  vento

UN GIORNO INCONTRAI JACK LONDON

Lo conoscevo solo di nome. Sapevo i titoli dei suoi libri più conosciuti, per averli visti sugli scaffali delle librerie, per averli sentiti citare nei film. Ma in quarantotto anni della mia esistenza nessuno mi aveva mai parlato della sua scrittura, probabilmente perché non si parla abbastanza di libri e si finisce sempre col parlare di cibo o di amore.

Ebbene un giorno lo incontrai, nel film Martin Eden di Pietro Marcello, e fu tale la meraviglia destata dal personaggio che tempo un paio di giorni e avevo già letto Il richiamo della foresta, Zanna bianca, i racconti ambientati nelle terre del Grande Nord, Martin Eden… così, senza respirare, senza poter fare o pensare ad altro, innamorandomi pagina dopo pagina di questo scrittore. Sì, il mio è amore. Ammirazione. Devozione.
Poi ho proseguito con La peste scarlatta, Le mille e una morte, Il vagabondo delle stelle, Il senso della vita (secondo me), Jack London. Le strade dell’uomo, La strada. Diari di un vagabondo e adesso sono a Il popolo dell’abisso.

L’innamoramento è diventato amore, come dicono i forse saggi, chi può dirlo? Io sto ancora riflettendo sulla cosa pur rientrando già nella categoria vecchia. Il sentimento è diventato più tranquillo, più responsabile nei confronti della mia esistenza fuori dalle pagine, ma è anche vero che non sono più sui suoi romanzi ora, non sto più vivendo intensamente le sue righe, ma sto leggendo le sue cronache, i suoi articoli, e mi soffermo a pensare…
A ogni pagina mi sento dispiaciuta, perché sono passati cent’anni e le cose non sono cambiate, anzi sono peggiorate. Tutta la sua fede nella ragione e nell’intelligenza umana, nella giustizia… è rimasta nelle pagine dei suoi libri a farmi sognare un mondo che avrebbe potuto essere, ma che non è e non sarà mai.

Piano piano, ora che leggo le descrizioni del popolo dell’abisso, che guardo le fotografie, mi vengono alla mente quegli abitanti che anch’io, seppur nella mia privilegiata esistenza, ho visto. Ho ricordato la mia vita nel centro di Santiago del Cile. Quando abitavo in un appartamentino con un balcone che si affacciava sulla strada Sotomayor, al cui angolo due volte alla settimana si faceva il mercato. Era ancora buio, così buio che non avevano iniziato a cantare nemmeno gli uccellini, quando un rumore come di sassi che venivano fatti rotolare giù in strada (o almeno questa era l’immagine che associai a quel rumore) mi svegliò. Andai al balcone e vidi questi uomini massicci come tori, o come buoi, che tiravano grandi carrette piene dei prodotti che si sarebbero poi venduti al mercato. Sentii l’affanno muto e determinato. E tutto il buio intorno. Mi sorprese l’esistenza di buoi umani, nel mondo in cui sono cresciuta la fatica non esiste quasi più. I campi vengono arati dalle macchine, le pietre spostate dalle gru… e così due volte alla settimana, appena li sentivo arrivare, andavo al balcone per guardarli passare.
Non alzavano mai la testa, lo sguardo fisso sulla strada. Erano immersi, concentrati nello sforzo di tirare quell’enorme peso, probabilmente ansiosi di arrivare a destinazione, pochi metri più avanti, dove finalmente avrebbero riposato.

E dopo?
Qualche ora più tardi scendevo in strada per andare anch’io al mercato, dove compravo pesche, lattuga… dove parlavo con mi casero, così si chiamava la persona di fiducia da cui facevo la spesa ogni volta. E nella luce della vita vivace di un mercato di quartiere, tra le chiacchiere e le discussioni della gente, e i bambini che correvano, i buoi umani giacevano come corpi svuotati di ogni energia sui carri vuoti; bruciati dal sole erano di un nero sporco e grasso di sudore, imbottiti d’alcol da pochi soldi. Erano così sbronzi da non sentire nulla, a guardarli sembravano caduti in una buca profonda, in un tunnel infinito in discesa. Parevano morti, privi della loro anima… fino a che non finiva il mercato e allora si svegliavano ancora sotto l’effetto dell’alcol e ripartivano.
Mi sono sempre chiesta da dove venissero, e dove tornassero. Che vita facessero. Erano uomini poveri, volenterosi e sicuramente con una famiglia alle spalle, ma troppo in basso per sperare in una vita migliore. Leggendo le descrizioni e soprattutto le riflessioni di Jack London sul popolo dell’abisso, su quella Londra che leggo credendo scomparsa, sono tornata a loro, alla mancanza di opportunità, di una sana alimentazione, di educazione. Sono tornata a quell’alcol così tossico da ucciderti a ogni sorso, che scurisce le membra e imbestialisce anche i cuori più puri.

Sono tornata, grazie a Jack London, a quella fame di mondo, delle sue immagini e delle sue storie, che coltivavo in sogno da ragazza, quando mi ero invaghita dei libri di Bruce Chatwin ed ero partita alla volta della Patagonia. Sogno a cui credevo di aver rinunciato.

“Dice un proverbio cinese che, se c’è un uomo che vive nell’ozio, vuol dire che ce n’è un altro che muore di fame. E Montesquieu ha affermato che – il fatto stesso che molti individui si diano da fare per fabbricare abiti per un solo individuo è la ragione per cui si trovano tanti individui privi di abiti –. Luna cosa spiega l’altra”. (Jack London, Il popolo dell’abisso)

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.