ELICA STUDIO SECONDA METÀ: CARLO PASTORE
Carlo: La storia di Elica Studio parte trent’anni fa quando con Elisabetta ci siamo incontrati. Eravamo entrambi studenti all’ISIA. Io andai alla riunione degli studenti e lei era la rappresentante. Appena l’ho vista ho pensato che avrei passato tutta la vita con lei. Così è stato che, da quel momento in poi, non abbiamo mai smesso di progettare.
Quando partii da Napoli non sapevo neanche cosa fosse la ceramica, pur abitando vicino a Vietri, non me ne ero mai interessato, e non avevo mai capito che poteva essere un mezzo di espressione. Volevo fare l’orafo. Ma un gruppo di amici andarono in vacanza in Riviera, conobbero un ceramista che disse loro che stava aprendo l’ISIA, che era a numero chiuso, e io dissi: proviamo.
Dopo un mese a Faenza non volevo più tornare a casa. Ero entrato in un mondo che era il mio mondo. A scuola eravamo in pochi, stavamo tutto il giorno chiusi in questo Monastero in centro dove si era creata un’atmosfera bellissima. I laboratori erano fantastici e ci stavamo da mattina a sera… è stata un’esperienza veramente fantastica.
Con Elisabetta abbiamo iniziato a giocare ed è nato il primo studio, L’Aleph (da Borges), con una terza persona dalla quale però ci siamo separati, e poi, solo noi due, abbiamo dato vita a Elica Studio, nato per progettare per altri. Progettavamo per quasi tutte le botteghe di Faenza, bottega Gatti, bottega Morigi, per la Tognana… Avevamo un approccio progettuale particolare, dovuto alla nostra voglia di lavorare con le mani, e quindi di prototipare, dando ai clienti non solo il disegno, ma anche il prototipo, l’oggetto tridimensionale realizzato da noi.
Per tanti anni abbiamo disegnato per le botteghe, fino a quando venne fuori il nostro primo pezzo cotto bene, con le colorazioni che volevamo noi e ci rendemmo conto di essere abbastanza bravi da poterci permettere di produrre ed esporre i nostri pezzi.
Quando siamo arrivati a usare la porcellana, ci rideva tutto, è stato come vincere una lotteria.Non è stato un caso se ci siamo innamorati della ceramica: eravamo a Faenza, il centro italiano della ceramica, e avevamo entrambi studiato in questa scuola specializzata nel mondo ceramico. Faenza ha una tradizione importantissima. Nel 1500 le ceramiche di Faenza erano famose in tutto il mondo, tutte le corti europee avevano il servizio di piatti fatto a Faenza. È interessante osservare come sia diventata famosa in un momento di grande crisi, in cui i ceramisti faentini, non avendo i soldi per comprare gli smalti e i colori, inventarono i bianchi. Uno smalto bianco con pochissimi tocchi di colore, con un segno molto semplice e veloce che diventò uno stile, al punto che ancora oggi in tutto il mondo la maiolica si chiama Faience (dal nome francese della città di Faenza).
La porcellana…
Prima ti innamori della ceramica, in senso lato, ma diventando più esperto, inizi a capire e a chiederti perché quel tipo di argilla ha avuto tanta importanza da diventare quasi la pietra filosofale delle corti europee…
La porcellana si produceva solo in Cina, e le corti europee erano disposte a pagare prezzi altissimi per i manufatti realizzati in questo materiale, quindi tutti – francesi, inglesi, tedeschi – ne cercavano la formula, ricerca che divenne un’avventura. La sua storia sembra un’avventura di Salgari: dall’origine fino ai giorni nostri ci sono tante storie che si potrebbe scrivere un libro! È talmente affascinante da incuriosire tutte le culture.
Non era un materiale popolare, ma destinato alle grandi corti. In Giappone, ad esempio, il popolo la lavorava, ma era considerato un onore, e se ad esempio la produzione per l’imperatore non era perfetta, il capomastro faceva harakiri.
Gli arabi usavano le terrecotte, le maioliche, ma quando l’hanno conosciuta l’hanno voluta, e in Cina hanno iniziato a usare il blu, il cobalto, proprio per poter vendere agli arabi, dando vita alla produzione dei famosi vasi cinesi da collezione, che altro non erano che una commissione degli arabi che ha costretto i cinesi a usare una colorazione inusuale per la loro cultura.
Wedgwood, dall’Inghilterra andò in nave negli Stati Uniti perché qualcuno gli aveva detto che in un territorio degli Apache c’era una montagna di un’argilla bianca che poteva essere interessante. Al suo arrivo fece le contrattazioni con gli Apache, che chiesero solo che venisse donata al loro capo tribù la prima ciotola, ciotola che non gli venne mai regalata se non moltissimi anni dopo da Edmund de Wall, che, trovando una ciotola da un antiquario, la prese e la frantumò sulla montagna bianca degli Apache. Che poesia!
E poi, se siamo andati nello spazio è stato grazie a dei tipi di argilla che cuociono a duemila gradi, perché il rivestimento dello shuttle è in ceramica. Le protesi per l’anca sono in ceramica. A Faenza c’è un’azienda specializzata in calotte craniche in porcellana.
La porcellana sembra quasi una pietra naturale, pur essendo una formula chimica che mette insieme varie argille, con la quale puoi creare degli oggetti che arrivano quasi alla traslucidità, perché, a differenza della maiolica, se prendi un pezzo di porcellana e lo metti contro il sole, la luce lo attraversa. È una malattia, chiunque fa ceramica punta in qualche modo alla porcellana, impossibile, difficilissima, costosissima, mitologica… È un materiale da trattare come una pietra preziosa, un qualcosa che devi rispettare.
Nella maiolica, per poterci dipingere sopra, sei costretto a coprire il colore rosso dell’argilla, e quindi, per tornare in un certo qual modo a un concetto di carta, devi mettere uno smalto bianco che però ha dei problemi tecnici. La porcellana invece è già bianca.
Noi ci siamo avvicinati alla porcellana prima di tutto perché la Betti ha fatto la tesi sulle lampade in porcellana, sfruttando sia la rifrazione – quindi lavorando su dei prismi che, colpiti dalla luce, la riflettevano all’esterno – sia la traslucidità. Allora le risero tutti dietro, ma adesso ne è pieno il mercato.
Siamo curiosi, non siamo tecnicamente dei ceramisti, siamo arrivati alla ceramica quasi da autodidatti, in modo sperimentale. Ci siamo comprati il nostro forno e abbiamo iniziato, ed è stato interessante perché veniamo entrambi dalla carta: io sono un illustratore e disegnatore, la Betti è una scrittrice intellettuale teorica della ceramica.
La Betti fa le basi e io lavoro in superficie. Una fa lo scheletro, l’altro la carne che ci sta sopra. Senza la Betti non ci sarebbe l’ossatura, mentre io sono quello che mette il velo sopra, che dà l’espressione.
A emozionarmi è quello che disegno su carta, ed è dove voglio arrivare con la porcellana. Il materiale deve aggiungere valore, non toglierne, e da qui l’idea di applicare le tecniche dell’illustrazione – matita, china, grattage – tipiche di un artista che lavora su carta, alla porcellana. Volevo ottenere l’effetto nero del carboncino, volevo avere la possibilità di sfumarlo con le dita, volevo usare i pennelli… e per cinque anni ci ho sbattuto la testa, fino a che non ho trovato gli ossidi giusti. È quasi il gioco del piccolo chimico, ogni pezzo che esce dal forno lo osservi per vedere quali sono le reazioni, per capire cosa è successo, e avere la capacità di ripeterlo.
In alto i cuori
Una mattina la Betti mi dice: Hai disegnato cuori per chiunque, fanne uno anche per noi.
E quella mattina di dodici anni fa, venne fuori il progetto In alto i cuori. Fare solo un cuore anatomico era riduttivo. Io sono di origini campane, la Betti ormai lo è per adozione e capisce il napoletano meglio di me, e abbiamo avuto l’idea di creare questa forma semplice, la sintesi del cuore anatomico, che diventasse però un post-it, un oggetto per raccontare. Ogni cuore quindi ha un messaggio e fa riferimento alla cabala napoletana. Ogni cuore ha un suo numero. Ogni cuore ha un suo significato ed è un portafortuna, o racconta d’amore, o cita le canzoni di Mina, o i versi di Dante. L’alto e il basso. Come nella cabala dobbiamo arrivare a novanta cuori, siamo a sessantaquattro, ma non abbiamo fretta, perché ci vogliamo concedere il lusso di perdere tempo. Uscire per uscire bruciando potenzialità e idee non ha senso, usciamo quando le cose sono pronte e funzionano. Ogni cuore è ben pensato, e quando è quello che ci convince, allora entra in produzione. A volte nasce da conversazioni, a volte anche da esigenze dei clienti che sono entrati nel gioco, come quello con la corona, uno dei più venduti, nato per un cliente che voleva un regalo “per il mio compagno che è il re del mio cuore”.
I cuori funzionano perché abbiamo avuto il pudore di essere banali con ironia. Sono per chi ama Dante e chi invece ama le canzoni napoletane, come Cuore ingrato, il primo che abbiamo prodotto. L’alto e il basso, un gioco che non ha mai fine. La cultura è fatta di alto e di basso, in ogni dove.
Negli anni ’80 abbiamo fatto la differenza a Faenza, ma a un certo punto per me non c’erano più stimoli. Ogni tanto bisogna cambiare aria, e quando per la prima volta misi per caso piede in via San Felice, ebbi la netta sensazione di esserci già stato. Dopo una settimana si era liberato un laboratorio, poi uno più grande, poi ho trovato casa, doveva succedere così. Era abbastanza vicina a Faenza, anche per comprare i materiali, e abbastanza lontana e viva da offrirci gli stimoli di cui avevamo bisogno.
Ci siamo sempre sostenuti con questo lavoro, ed è una cosa rara. Non facciamo bomboniere, né tazzine da caffè. In tutti questi anni abbiamo avuto la presunzione di pensare che avevamo i mezzi per poter creare tendenza, e nessuno dei due voleva andare a fare il dipendente in una qualsiasi fabbrica di Sassuolo, avevamo voglia di esprimerci e raccontare il nostro delirio.
Vogliamo continuare a fare questo lavoro, sperimentare anche di più e poter creare dei progetti diversi. Il fatto di essere in due a farci forza ci ha aiutato a essere liberi.
Fare con le mani è la cosa che mi fa sentire vivo. E la mia idea è quella di invecchiare con un laboratorio sotto casa, svegliandomi ogni mattina felice di aver scoperto qualcosa di nuovo, lavorare e arrivare sporco di argilla o di matite all’ultimo minuto.
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